Quando fu il mio turno di parlare, mi alzai in piedi, con le mani che tremavano leggermente, non per nervosismo, ma per soddisfazione.
“Innanzitutto”, ho iniziato in inglese, “vorrei ringraziare tutti coloro che mi hanno accolto così calorosamente nella famiglia”.

Poi ho cambiato lingua.
“Ma visto che parlate tutti arabo da sei mesi ormai… forse dovrei finalmente unirmi a voi.”
La stanza si bloccò.
La forchetta di Rami cadde rumorosamente sul tavolo. Il sorriso di sua madre svanì.
Continuai, con voce calma, pronunciando ogni parola in un arabo impeccabile, ripetendo le sue battute, i suoi sussurri, i suoi insulti. L’unico suono nella stanza era la mia voce.
“E sai,” dissi a bassa voce, “all’inizio mi ha fatto male. Ma ora sono grata. Perché finalmente so chi mi rispetta davvero, e chi non l’ha mai fatto.”
Per un lungo momento, nessuno si mosse. Poi mio padre, completamente ignaro di quanto era stato detto, chiese: “Va tutto bene?”
Guardai Rami. “No, papà. Non è vero.”
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